Il Counselor-Analista

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Seminario tenuto nel settembre 2018 presso la Scuola di Cura di Sé di Bergamo

Di Tullio Carere-Comes

Sommario. Quando ci prendiamo cura l’uno dell’altro un Altro si prende cura di noi: il terzo analitico. Il counselor, a differenza dell’analista, conta solo sul transfert positivo. Il punto sulle due professioni: le leggi 4/2013 e  56/1989. I regimi autorizzatorio e accreditatorio. SpazioZero e le sentenze della Cassazione. Che cosa significa mettere il processo al posto di guida. Dal pensiero lineare al pensiero dialettico. Le ragioni degli psicologi e quelle dei counselor. Dal counseling all’analisi dialogico-processuale.

Abbiamo inaugurato questa Scuola di cura di sé dieci anni fa. Il nome completo sarebbe Scuola di cura di sé e dell’altro nella relazione, perché non è possibile prendersi cura di sé al di fuori di una o più relazioni, cosa che implica sempre un certo grado di reciprocità. La cura di sé non è separabile dalla cura delle relazioni in cui siamo immersi e di cui abbiamo un bisogno vitale. Non posso prendermi cura di me se non mi prendo cura anche di te, e viceversa. Insieme ci prendiamo cura l’uno dell’altro/a, anche se formalmente il ruolo del curante è impersonato da uno solo dei due (genitore, insegnante o terapeuta); e nel momento in cui ci prendiamo cura l’uno dell’altro un Altro si prende cura di noi – possiamo chiamarlo logos, o processo, o terzo analitico, o anche spirito santo se così ci piace… È un terzo soggetto, generato dall’incontro tra i primi due, che al pari di tutti i soggetti sembra avere una sua intelligenza-intenzione-volontà, superiore alla somma dei due soggetti in relazione: un soggetto in grado di interagire con i primi due e di indirizzarli al superamento delle individualità separate e contrapposte e alla realizzazione di una superiore sintesi che li comprende e completa. Abbiamo voluto creare uno spazio in cui le persone possano imparare a prendersi cura di sé e dell’altro, lasciandosi guidare dal processo che si attiva nello spazio del dialogo in vista della crescita personale e della scoperta e realizzazione delle proprie potenzialità, ma anche di un utilizzo professionale delle competenze acquisite per chi lo desidera. 

           Abbiamo scelto di aprire una scuola di counseling perché eravamo e siamo oggi ancora più convinti che non solo la cura di sé sia una prerogativa, un diritto e un dovere di ogni essere umano che non voglia dare per scontata la propria umanità, ma anche che la cura professionale del sé o dell’anima sia una cosa troppo importante per lasciarla ai medici e agli psicologi. I saperi che si acquisiscono nei corsi di laurea in medicina e in psicologia, infatti, possono essere utili all’esercizio delle professioni di counseling, psicoterapia e psicoanalisi; ma non sono indispensabili, e possono essere persino di ostacolo, se l’orientamento prescelto è del tipo dialogico-processuale, fondato sulla capacità di soggiornare nello spazio di non sapere che rende possibile il dialogo molto più che sui saperi del curante. I saperi che si acquisiscono in quei corsi di laurea non sono indispensabili per l’approccio dialogico-processuale insegnato e praticato nella nostra scuola, ma solo per quello diagnostico-procedurale finalizzato alle cure che la ricerca empirica ha dimostrato efficaci per il trattamento del disturbo o problema diagnosticato: solo per questo è necessaria la formazione scientifica acquisita da medici e psicologi.

           Abbiamo successivamente ampliato l’offerta formativa della nostra scuola aggiungendo al corso triennale di counseling un biennio di analisi dialogico-processuale, destinato a quei counselor che non si accontentano di lavorare su obiettivi limitati nel tempo e nella profondità accessibili a chi ha completato il corso triennale e desiderano spingersi nel mare aperto della cura oltre quei limiti. I fenomeni di transfert e resistenza sono ubiquitari, e quindi presenti anche nei trattamenti focalizzati su obiettivi raggiungibili in breve tempo. In questi, tuttavia, il counselor si limita a gestire gli aspetti emotivo-affettivi della relazione in modo che non siano di ostacolo e possibilmente favoriscano il raggiungimento degli obiettivi prefissati. In termini psicoanalitici, si può dire che il counselor cerca di attivare un transfert positivo e di metterlo al servizio del progetto condiviso. Nella cura che si spinge in mare aperto, invece, non diamo più per scontato che l’obiettivo dichiarato dal cliente corrisponda a ciò che egli profondamente e realmente vuole. Cercheremo piuttosto di metterci in ascolto di altre voci, di desideri e bisogni che potrebbero non essere ancora affiorati alla coscienza. Ci lasceremo guidare sempre più dal processo della cura, che indicherà direzioni impreviste e non di rado in contrasto con quelle perseguite dall’io cosciente. Se vorremo procedere in questa nuova navigazione dovremo lasciare porti sicuri per un’avventura che affascina ma anche spaventa. Il cliente, che a questo punto potremo anche chiamare paziente – perché senza pathos, che significa sofferenza e passione, questo viaggio non si può proprio fare – comincerà allora a investire nella relazione di cura i suoi conflitti più profondi di amore e odio, di seduzione e competizione, di invidia e gelosia, di verità e inganno. Se dunque vorrà navigare in questo mare tempestoso, il counselor dovrà fornirsi di un supplemento formativo che farà di lui un analista esistenziale, una specie particolare di analista laico.  

     Facciamo ora il punto sulle professioni di counselor e analista esistenziale, i due livelli del nostro corso. Esiste una legge dello Stato, la 4/2013, che offre un inquadramento giuridico alle professioni non protette, cioè non regolamentate da ordini o albi. Queste professioni possono ora organizzarsi in associazioni regolate dal principio accreditatorio, per contrasto con il principio autorizzatorio degli ordini. La differenza sta nel fatto che in regime ordinistico – quello che regola tra le altre le professioni di medico e di psicologo – non è possibile esercitare le relative professioni senza l’iscrizione all’albo, mentre in regime accreditatorio il professionista può farsi riconoscere da una associazione di categoria una formazione regolare e permanente con i criteri stabiliti da quella associazione (fermo restando che l’iscrizione a una di queste associazioni non è obbligatoria). Fin qui tutto bene. Il punto critico sta nel fatto che il professionista che opera in regime accreditatorio non può svolgere attività riservate alle professioni protette. Per quello che ci riguarda, il counselor e l’analista esistenziale debbono poter dimostrare che non svolgono attività riservate alla professione di psicologo – in particolare, e soprattutto, che quello che fanno non è psicoterapia: attività che un’altra legge, la 56/1989, riserva alla competenza esclusiva di medici e psicologi. La difficoltà, per questa dimostrazione, sta nel fatto che bisognerebbe sapere in primo luogo che cosa è e che cosa non è psicoterapia. Questione tutt’altro che scontata, dal momento che esistono centinaia di metodi che sono o possono essere detti psicoterapeutici, basati su princìpi molto diversi e spesso del tutto incompatibili gli uni con gli altri.

            Prendiamo, per cominciare a capirci qualcosa, l’autorevole definizione di psicoterapia del Vocabulaire de la psychanalyse di Laplanche e Pontalis: «A) In senso lato, ogni metodo di trattamento dei disordini psichici o somatici che utilizzino mezzi psicologici e, più precisamente, la relazione tra il terapeuta e il malato: l’ipnosi, la rieducazione psicologica, la persuasione, ecc; in questo senso la psicoanalisi è una forma di psicoterapia. B) In senso più ristretto, la psicoanalisi è spesso contrapposta alle varie forme di psicoterapia per una serie di ragioni, tra cui la funzione fondamentale dell’interpretazione del conflitto inconscio e l’analisi del transfert volta alla risoluzione del conflitto». La questione si è posta storicamente per la prima volta nel campo psicoanalitico a partire dal celebre paragone fatto da Freud tra l’oro della psicoanalisi e il rame della psicoterapia suggestiva (cioè, ogni psicoterapia diversa dalla psicoanalisi). A un certo punto, specialmente in paesi come la Francia e l’Italia, la questione si è spostata da un livello caratterizzato dal semplice bisogno di affermare la superiorità della propria cosa rispetto a tutte le altre – una debolezza che contraddistingue del resto anche tutte le religioni storiche – a quello molto più concreto della possibilità di dirsi psicoanalisti anche senza essere medici o psicologi: la questione della analisi laica. Una questione molto pratica, perché comporta il rischio di denuncia per abuso della professione medica o psicologica. Come è stato affrontato questo rischio? Il movimento “Spazio Zero” (dove “zero” è l’O di Bion, cioè l’ignoto, l’inconoscibile, ciò che non ha ancora preso forma) si è costituito nel 1995 per iniziativa di una rete di psicoanalisti di diversi orientamenti ma accomunati dalla determinazione di affermare e difendere il carattere laico, vale a dire né medico né psicologico, della pratica analitica. Ricordiamo alcuni punti evidenziati da Spazio Zero:​

  • Gli insegnamenti impartiti dalle facoltà di Medicina e Psicologia non sono né necessari né sufficienti per coprire tutto il ventaglio delle materie di studio poste da Freud alla base della formazione dello psicoanalista.
  • L’analisi personale è considerata da tutte le componenti del movimento psicoanalitico come un aspetto indispensabile di tale formazione.
  • Molti dei massimi protagonisti nella storia della psicoanalisi non provenivano affatto da una formazione medica o psicologica, ed alcuni di loro non avevano mai conseguito alcuna laurea.
  • La sola via giuridicamente percorribile per normare la pratica analitica, senza tradirne i presupposti etico-scientifici, è quella dell’autoregolamentazione, adeguatamente resa pubblica. Solo così la formazione di ciascun analista può avvenire fuori da meccanismi di cooptazione istituzionale e ogni sua tappa essere resa nota senza mistificazioni.

Tali punti ebbero l’avallo del parere pro veritate commissionato e ottenuto dall’autorevole giurista Galgano, che dice in sintesi:​

  • La legge Ossicini non detta norme sulla psicoterapia in genere e non fa di essa una professione protetta nel senso dell’art. 2229 del codice civile, ma si riferisce solo alla psicoterapia praticata da psicologi e da medici, lasciando impregiudicato il trattamento normativo degli psicoterapeuti diversi dagli psicologi e dai medici e, in particolare, quello degli psicanalisti, che restano sottoposti ai principi generali del codice civile. 
  • La pratica analitica può perciò essere legittimamente condotta anche da soggetti non in possesso di una laurea in medicina o in psicologia. 
  • Gli psicoanalisti non iscritti negli elenchi contenuti negli albi degli psicologi e dei medici e degli odontoiatri non incorrono in esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta, in quanto la psicoanalisi è una professione diversa dalla psicoterapia disciplinata dalla legge n. 56/1989. 

Tutti gli argomenti esposti da Spazio Zero e avallati dal parere pro veritate Galgano sono ragionevoli e condivisibili, ma non inoppugnabili. Tanto è vero che la Corte di Cassazione, con una sentenza del 2011, ha espresso parere diverso: «Né può ritenersi che il metodo “del colloquio” non rientri in una vera e propria forma di terapia, tipico atto della professione medica, di guisa che non v’è dubbio che tale metodica, collegata funzionalmente alla cennata psicoanalisi, rappresenti un’attività diretta alla guarigione da vere e proprie malattie (ad es. l’anoressia) il che la inquadra nella professione medica»¹. Il punto debole tanto delle tesi di Spazio Zero, quanto della sentenza della Cassazione, sta nel riferimento alla psicoanalisi al singolare, come se non fosse chiaro e ben noto che “la” psicoanalisi non esiste più da tempo, praticamente da poco dopo la scomparsa di Freud. Ciò che oggi esiste è una moltitudine di scuole psicoanalitiche che, come notava Kohut, si disprezzano e si fanno la guerra l’una con l’altra. Poiché le teorie di queste scuole si basano su assunti molto diversi e spesso del tutto incompatibili, è ormai impossibile riconoscere un’entità unica, dotata di un’identità definita e accettata da tutti gli psicoanalisti, in riferimento alla quale si possa stabilire se una cosa è o non è psicoanalisi. Il paradosso è che dal confronto tra un’entità indefinita, detta psicoanalisi, e un’altra identità non meno indefinita, detta psicoterapia, si pretende di affermare con certezza che le due entità sono differenti (Spazio Zero) o sono la stessa cosa (Corte di Cassazione)! Vedremo che lo stesso paradosso si riproduce oggi identico nel confronto tra la psicoterapia e quell’altra cosa non meno indefinita che è il counseling, con la produzione delle stesse opposte pretese: sono due cose differenti per i counselor, sono la stessa cosa per gli psicologi. Come si esce dallo stato confusionale in cui sembra versare l’intero campo delle professioni della relazione di aiuto?

            Una via c’è, e l’abbiamo esplorata ripetutamente nei nostri seminari. Nella vasta varietà delle pratiche che si dicono psicoanalitiche, psicoterapeutiche o consulenziali, ma che di regola si sovrappongono ampiamente, si possono distinguere due linee che si intrecciano e si ibridano nei modi più diversi, ma che possono anche essere tenute separate. Anzi debbono essere tenute separate dai professionisti laici, cioè non medici e non psicologi, che possono legittimamente operare su una sola di queste linee – la dialogico-processuale – mentre medici e psicologi possono scegliere liberamente questa o l’altra – la diagnostico-procedurale – e altrettanto liberamente combinarle in funzione degli obiettivi prescelti. Per cogliere il significato di questa differenza, ricordo ancora una volta che in ogni relazione di cura si utilizzano delle procedure e si attivano dei processi, ma il senso della cura cambia radicalmente a seconda di quali siano figura e quale sfondo, per come queste parole sono intese nella teoria della Gestalt. Infatti, se è figura, cioè prioritario, il processo, sarà questo a guidare la cura suggerendo quali delle procedure note al curante siano da utilizzare in un momento dato, modificate e adattate in funzione di ciò che il processo richiede in quella particolare situazione. Se al contrario è figura la procedura, si potranno sviluppare solo i processi compatibili con le linee guida di una cura in cui si definisce un obiettivo – disturbo o problema – e si applicano le procedure ritenute efficaci per il trattamento di quel disturbo o la soluzione di quel problema. Mentre nel secondo caso la formazione scientifica acquisita da medici e psicologi è necessaria – nel caso si voglia procedere scientificamente, e non da “credenti” in questa o quella teoria psicoterapeutica –, nel primo quella formazione non lo è, perché le procedure eventualmente utilizzate non saranno applicate secondo le linee guida generate dalla ricerca empirica ma secondo quelle del processo, sempre unico e imprevedibile in ogni singolo caso.

Che cosa significa mettere il processo al posto di guida? Lasciarsi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti, scriveva Freud nel 1912. Lasciare memoria e desiderio fuori della stanza di analisi, gli farà eco Bion alcuni decenni più tardi. Mettersi in ascolto del “terzo analitico”, suggerirà Ogden più recentemente: il terzo soggetto dell’analisi accanto ad analista e analizzante, sempre presente nella stanza se abbiamo occhi per vederlo – ma per il terzo analitico (il processo) serve più propriamente la visione del terzo occhio… Vediamolo con un esempio clinico. Una donna che si avvicina alla cinquantina riprende l’analisi dopo alcuni anni di interruzione. Avevamo dovuto sospendere la prima serie di sedute perché era ancora troppo coinvolta con il suo ruolo materno per disporre dell’energia necessaria alla ricerca guidata dalla domanda “chi sono io veramente, al di là di essere una madre?”. È un fenomeno abbastanza comune. In questo momento ho in analisi altre due donne che hanno ripreso la cura dopo una lunga interruzione. Tutte e tre queste donne erano troppo assorbite dall’impegno della maternità per dare al lavoro analitico la necessaria priorità. Potremmo dire anche che le resistenze erano troppo forti, ma dobbiamo intenderci: la resistenza non è di per sé una cosa negativa, da superare in tutti i casi. Può essere semplicemente un segnale del fatto che il paziente in questo momento ha cose più urgenti o più importanti di cui occuparsi dell’analisi. Molte donne sentono la maternità come un impegno che viene prima di ogni altro. Solo quando hanno portato fino in fondo l’esperienza di dedizione completa al compito materno, ne hanno ricavato tutta la soddisfazione possibile e sono giunte al punto in cui vedono che la loro vita non può risolversi nella maternità, sono pronte a dedicarsi al desiderio di conoscenza e di realizzazione di sé con tutto l’impegno che il lavoro analitico richiede.

            Ecco un primo esempio di cura guidata dal processo. Per molti psicoanalisti dire che il paziente resiste vuol dire di regola che resiste alla presa di coscienza di materiali inconsci di origine infantile nella relazione di transfert. La realtà esterna attuale è irrilevante. Un analista che va per la maggiore come Antonino Ferro, ad esempio, lo dice a chiare lettere. Quello che succede fuori della stanza di analisi non lo riguarda e non gli interessa. Questo significa che il terapeuta non sta ascoltando il processo, ma solo la teoria che ha in mente e alla quale è più affezionato che alla ricerca della verità. L’ascolto del processo, per contrasto, aiuta a riconoscere il reale significato di quello che accade, al di là delle teorie che il terapeuta ha in mente. Il terapeuta può decidere di farsi guidare da una teoria perché la ricerca empirica ha dimostrato che in casi simili a quello che sta trattando l’applicazione di una data teoria e delle relative procedure produce risultati migliori di altre teorie e procedure – e allora sceglie legittimamente di lavorare con un approccio diagnostico-procedurale – o semplicemente – ed è il caso più frequente – perché è un devoto seguace della scuola in cui si è formato o delle teorie che lui stesso si è costruito. Nel caso delle tre donne, l’analisi ha potuto essere ripresa dopo anni di interruzione grazie al fatto che la resistenza è stata rispettata come pienamente legittima nel momento in cui si è presentata e l’analista ha mostrato la sua disponibilità ad attendere che queste persone fossero pronte a fornire tutto l’impegno richiesto da un’impresa fuori del comune. Infatti non è comune che una persona arrivi al punto di considerare prioritaria la conoscenza di sé e la realizzazione delle proprie più autentiche potenzialità.

            Torniamo alla paziente che, riprendendo l’analisi, porta un sogno in cui si scopre un foruncolo su una gamba. Lo schiaccia e ne vede uscire un bruco. Superato il disgusto, riflette: in primo luogo, se avevo nel mio corpo un bruco, è meglio che ora ne sia uscito; in secondo luogo, questo bruco potrà anche diventare una farfalla… In un sogno successivo un attentatore si presenta sul suo luogo di lavoro. Capisce che è stato commesso un omicidio, e che la vittima è lei stessa. È ora pronta a prendere atto dell’uccisione della parte di sé, avvenuta molti anni prima, che voleva fare della sua vita qualcosa che la facesse sentire realizzata. Poco più che ventenne aveva soffocato e messo a tacere la parte più autentica di sé per adeguarsi alle aspettative dei genitori e del marito. Aveva rinunciato a coltivare il suo talento musicale, aveva abbandonato un’attività in cui la sua intelligenza vivace trovava alimento e si era arresa all’impiego sicuro al quale i familiari l’avevano destinata. Pochi mesi dopo l’inizio del nuovo lavoro aveva contratto una malattia autoimmune che a fasi alterne si è trascinata fino a oggi. “Ecco il bruco che strisciava dentro di me!”, esclama. Adesso finalmente si è liberato ed è pronto alla metamorfosi che è rimasta bloccata per tanto tempo. Ma quale sarà la nuova forma che la sua vita potrà prendere?

            Come in risposta a questa domanda arriva il sogno di un ragazzo che suona la chitarra. La suona magnificamente e lei lo ascolta rapita. Poi sente l’impulso di andare a cercare il suo vecchio sassofono rimasto chiuso nel suo astuccio per troppi anni. Suona assieme al ragazzo e creano una musica bellissima. A un certo punto compare un terzo strumento, un altro sassofono, che si unisce ai primi due a formare un trio: ma non si vede nessuno che lo suoni. Ecco il “terzo analitico”, il terzo soggetto dell’analisi, il processo. La sua presenza – più esattamente, la consapevolezza della sua presenza – è essenziale per uscire dal mondo della dualità, in cui i conti non tornano mai. Come nel caso dell’amore romantico, in cui i due amanti sono in paradiso finché l’amore dura e precipitano in un inferno di disperazione (o di noia) quando finisce – e finisce sempre, per un motivo o per l’altro. Questo tipo di amore si basa sull’illusione che l’unione con la persona (o la cosa) amata risolva il senso di mancanza o di vuoto esistenziale che è centrale nella condizione umana dopo l’espulsione dal giardino terrestre o dal grembo materno. Tutti i paradisi artificiali sono il prodotto di questa illusione, incluso quello interno alla relazione di transfert in cui (tipicamente) la paziente immagina che la soluzione finale di tutti i problemi sarà l’unione con l’analista, una volta che questi si sia arreso all’evidenza di aver trovato finalmente in lei la giusta compagna della sua vita. Non è il caso di questa paziente che suona il sassofono con l’analista-chitarrista (quand’ero giovane strimpellavo la chitarra) e che ha messo a frutto l’analisi precedente quanto basta per non cadere nella trappola in cui tanti e tante cadono. Con l’analista potrà formare un eccellente duo, anzi i loro incontri producono sin d’ora notevoli armonie potendo contare sul lavoro preliminare svolto anni prima. Ma il terzo suonatore si unisce ai primi due come per avvertire che per fare della buona musica occorrerà anche il suo contributo.

Nel mondo della dualità, che chiamiamo anche egosfera, l’altro è qualcuno con cui fondersi come rimedio all’angoscia di separazione o un nemico che si oppone ai nostri piani. La coppia ordinaria, normalmente egosferica, alimenta l’illusione della completezza finché dura la fase dell’innamoramento, per poi ripiegare su quella della sicurezza e accontentarsi di questa quando la prima è esaurita. Se, come scherzava Freud, l’innamoramento è una follia che ha l’unico pregio di durare poco, l’idea di trovare sicurezza nel possesso di un altro essere umano che si crede di amare e da cui si pensa di essere amati non si estingue fintanto che dura la permanenza nel mondo della dualità. Se ne esce con l’intuizione, che diventa via via esperienza vissuta, di una dimensione più grande di lui e di lei, o del soggetto e dell’oggetto: un intero di cui la singola cosa o persona sono parti. È il passaggio dal pensiero lineare al pensiero dialettico. Nel primo a una tesi si oppone un’antitesi, ciascuna delle due cercando egosfericamente di inglobare o prevalere sull’altra. Nel secondo, grazie alla consapevolezza di ciascuna delle due parti di essere parti di un intero, si dischiude la visione di una sintesi che toglie la contraddizione pur mantenendo la distinzione delle parti, le quali tuttavia grazie alla sintesi raggiunta guadagnano un superiore livello di integrazione. 

            A che cosa corrisponde il trio per chitarra e due sassofoni del sogno?

A una relazione che non si chiude autocompiaciuta su sé stessa ma si apre all’ascolto di un terzo strumento senza suonatore, quindi impersonale o meglio transpersonale, come è il processo che trascende le due persone coinvolte nel dialogo. È come dire: siamo qui per cercare qualcosa di più grande di noi, non per guardarci in faccia e dirci quanto siamo bravi e intelligenti. È quel sé più profondo che trascende l’ego, il vero sé che si libera dall’identificazione con il sé immaginario, l’atman che nel vedismo coincide con brahman, il microcosmo in cui si rispecchia il macrocosmo. In questa prospettiva processuale cerchiamo continuamente, nello spazio privilegiato della relazione analitica e via via in ogni altra relazione, di metterci in ascolto dei segni del logos, che come già insegnava Eraclito non dice e non nasconde ma manda segni (semainei). Questi segni vanno in primo luogo colti, poi interpretati; quindi la validità delle nostre interpretazioni deve essere verificata nel confronto continuo con l’esperienza concreta, nella relazione dialogico-dialettica con tutti coloro che ci sono compagni in questo viaggio, anche senza saperlo. È questo un tratto fondamentale della scienza esperienziale della cura, ben diversa da quella sperimentale medico-psicologica.

            La visione dialogico-processuale è sostanzialmente diversa da quella medico-psicologica basata sulla diagnosi di un disturbo o problema e somministrazione delle procedure ritenute efficaci per la sua eliminazione o risoluzione, nella prospettiva delle restituzione nel tempo più breve e nel modo più economico del paziente o cliente alla sua vita normale. Nell’ottica processuale l’obiettivo non è la normalizzazione, ma la crescita o liberazione del soggetto. Qui non esiste una normalità auspicabile, ma un processo virtualmente interminabile di risveglio o realizzazione. Mentre in una visione il disturbo o il problema sono cose da eliminare o risolvere, nell’altra sono opportunità da cogliere per scuotersi dal sonno egosferico e iniziare quello che è stato chiamato il “vero viaggio”. Certamente anche un’ottica processuale include il trattamento di disturbi e problemi: solo che qui non sono visti come inconvenienti da eliminare, ma come segnavia di un cammino in cui ogni malessere o disagio deve essere investigato nel suo significato profondo. Questo non significa, naturalmente, che la cura processuale sia giusta e quella procedurale sia sbagliata. Se abbiamo mal di denti faremo sempre bene a chiederci che cosa ci vuol dire: potrebbe derivare da alimentazione sbagliata, da cattiva igiene orale o da bruxismo, a sua volta spia di tensioni irrisolte. Ma intanto andiamo dal dentista a farci curare una carie o estrarre un dente guasto. Idealmente, l’approccio dialogico-processuale e quello diagnostico-procedurale dovrebbero integrarsi mediante la collaborazione tra diversi professionisti, una integrazione che almeno in alcuni casi e fino a un certo punto può essere fatta dallo stesso professionista, posto che sia un medico o uno psicologo. Come già Ippocrate auspicava, il medico che è anche filosofo è simile a un dio (iatròs philosophos isozeos). Ma il professionista non medico né psicologo dovrà attenersi a ciò che è alla sua portata e non invadere il campo che non è di sua competenza.

Non mi stanco di insistere sulla differenza tra i due modi di intendere la cura – il curare medico-psicologico e il prendersi cura filosofico-umanistico – perché la comprensione di questa differenza mi sembra essenziale per uscire dalla confusione che regna nel campo delle professioni di aiuto e che vede schierati da una parte la grande maggioranza degli psicologi sulla linea che psicoanalisi e counseling non sono altro che forme diverse di psicoterapia, e dall’altra counselor e analisti laici sulla linea opposta che ciò che fanno non ha nulla a che fare con la psicoterapia. Lasciando per il momento da parte gli analisti laici che sono pochi e non danno troppo fastidio, il bersaglio grosso degli psicologi è il counseling. Vediamo più in dettaglio le posizioni dei due schieramenti.

Per AltraPsicologia, l’associazione più bellicosa, il counseling semplicemente non deve esistere; per il CNOP, cioè il Consiglio degli Ordini degli Psicologi, il counseling può esistere solo come una competenza trasversale a diverse professioni – quella di psicologo in primo luogo, ma anche quelle di medico, insegnante, infermiere e via dicendo. Dall’altra parte le associazioni di counseling sono quasi compatte (ci sono delle eccezioni in entrambi gli schieramenti) nella difesa del counseling come professione autonoma, anche se limitata nella profondità e durata degli interventi rispetto a psicoterapia e psicoanalisi. Ma perché tutte le associazioni di counseling insistono sul limite delle dieci o quindici sedute? La risposta è ovvia: perché se quel limite è superato diventa molto difficile distinguere un trattamento di counseling da uno di psicoterapia (in senso lato). Tuttavia, sarebbe ancora più difficile non vedere la precarietà di questa linea difensiva. La pretesa che una cosa non sia una psicoterapia se non supera tot sedute e lo diventi nel momento in cui quel tot è superato appartiene allo stesso filone letterario della leggenda, tuttora in auge, secondo la quale una cosa è psicoanalisi se avviene almeno tre (in altri tempi quattro o cinque) volte alla settimana e decade a psicoterapia al di sotto di quel numero.

           In sintesi: da una parte si sostiene che il counseling non deve esistere, o tutt’al più è ammissibile come competenza trasversale ad altre professioni, dall’altra si afferma che il counseling ha pieno diritto di esistere come una professione autonoma. È il tipico conflitto egosferico tra due posizioni estreme che si negano l’una con l’altra. In una prospettiva logosferica, ovvero dialettica, riconosciamo a entrambe le posizioni una parte della verità, ma non tutta intera. Agli psicologi non si può dar torto sul fatto che l’esercizio della psicoterapia richiede una preparazione scientifica di cui solo loro e i medici dispongono: a patto di riconoscere che la psicoterapia in questione è appunto quella di tipo sanitario, diagnostico-procedurale, e non può includere tutte le pratiche di cura della psiche o dell’anima. Se così non fosse anche i preti, i filosofi e gli educatori dovrebbero avere una laurea in psicologia per fare quello che fanno. Dall’altra parte daremo ragione ai counselor se utilizzano nel loro lavoro unicamente le competenze relazionali che sono comuni a tutte le relazioni di cura, all’interno di una relazione dialogico-processuale al servizio della crescita personale e spirituale dei loro clienti: a patto che in primo luogo si astengano dal far uso di procedure tecniche proprie di questa o quella teoria psicoterapeutica per risolvere i problemi specifici da loro diagnosticati; e in secondo luogo siano pronti a integrare le loro competenze di base con un supplemento formativo che li abiliti a lavorare nel mare aperto delle cure senza limiti di tempo e profondità quando la logica del processo li inviti a superare i confini assegnati alla loro professione, nel caso decidano di accettare quell’invito.

Consideriamo, ad esempio, il caso tipico della persona in crisi perché è stata abbandonata dal partner. La professione di counseling si basa sull’assunto che questa situazione possa essere affrontata e risolta in pochi colloqui senza impegnare il cliente in un lavoro di profondità e di lungo respiro. Utilizzando unicamente le sue competenze di base (campo base della nostra mappa), il counselor offrirà un ascolto empatico che permetta al cliente di sentirsi incondizionatamente accolto; lo incoraggerà a prendere un atteggiamento responsabile, piuttosto che di vittima, persecutore o salvatore; lo aiuterà a riconoscere gli schemi mentali che ostacolano lo sviluppo del processo e ad attivare le risorse e le potenzialità che gli serviranno ad affrontare con successo il momento di crisi, ricucendo la relazione con il partner o elaborandone la conclusione. È possibile che le cose vadano realmente così? Certo, perché no? Ma è davvero probabile che vadano così? No, non lo è. Nella generalità dei casi le cose sono molto più complesse. È abbastanza normale che l’episodio di abbandono evochi e metta in risonanza altri abbandoni più antichi, riaprendo vecchie ferite; che l’esperienza di accoglimento incondizionato risvegli nel cliente un bisogno che non potrà essere soddisfatto in pochi incontri; che la rinuncia ai ruoli ben consolidati di vittima, carnefice o salvatore a favore di un atteggiamento responsabile incontri resistenze che non potranno essere viste e risolte in poco tempo; che gli schemi esperienziali e comportamentali cui il cliente è fissato e che ostacolano la risoluzione della crisi siano più profondi e intricati di quanto possa apparire in pochi colloqui, e che l’attivazione di nuove risorse e potenzialità inesplorate richieda tempi molto più lunghi. Senza contare le fantasie di transfert, ubiquitarie e presenti sin dal primo incontro, che il counselor se ne renda conto o meno: per cui ad esempio aleggerà nella stanza il fantasma di una madre più o meno buona o più o meno cattiva… 

           Arrivato alla conclusione delle fatidiche dieci o quindici sedute, che cosa farà dunque il counselor? Nel caso, improbabile ma possibile, di un felice raggiungimento dell’obiettivo, congederà il cliente soddisfatto e grato per l’eccellente prestazione. Nei casi refrattari alle sue cure non potrà che riferire il cliente ad altri professionisti, psichiatri o psicoterapeuti. Nei casi invece in cui si sia attivato, grazie a una buona alleanza di lavoro, un processo che abbia già prodotto qualche risultato ma che rappresenti solo l’inizio di un cammino di risveglio, liberazione e crescita destinato a durare tutta la vita, il counselor si troverà di fronte a diverse scelte. La prima sarà di colludere con le resistenze del cliente a intraprendere un cammino così impegnativo, scoraggiando il proseguimento di un’avventura non priva di rischi nella quale lui in ogni caso non sarebbe in grado di accompagnarlo. La seconda sarà di non colludere con le resistenze del cliente, invitandolo a rivolgersi a uno psicoterapeuta o uno psicoanalista per il proseguimento del lavoro iniziato. La terza sarà di prendere in considerazione la probabile obiezione del cliente: “Ma perché mi manda da un altro professionista, quando ho trovato finalmente qualcuno da cui mi sento ascoltato e capito?”. È un’obiezione così ragionevole da risultare non di rado irresistibile, come è sotto gli occhi di tutti: soprattutto quelli degli psicologi comprensibilmente arrabbiati per quella che considerano concorrenza sleale. La frequenza con cui quest’ultima evenienza di fatto si verifica spiega la determinazione della grande maggioranza degli psicologi a cancellare il counseling dalla lista delle professioni autonome, tollerandolo al massimo come competenza trasversale a professioni diverse.

L’irritazione degli psicologi è tanto più comprensibile se si considera che, anche restando all’interno di un intervento breve e focalizzato su un progetto definito, non è affatto inconsueto che il counselor utilizzi, per il raggiungimento dell’obiettivo, oltre alle competenze relazionali di base di cui dispone anche le procedure tecniche derivate da qualche teoria psicoterapeutica: rendendo in tal modo il suo intervento indistinguibile da una qualsiasi psicoterapia breve. Da questa imputazione il counselor potrebbe peraltro difendersi dichiarando a chiare lettere, nello statuto delle sue scuole e associazioni e nel consenso informato da far firmare al cliente, di svolgere un lavoro dialogico-processuale in cui le procedure eventualmente applicate non sono guidate da una teoria (theory driven), cosa che richiederebbe una formazione scientifica di cui il counselor non dispone, ma dal processo (process-driven) che si attiva in modo unico e imprevedibile nella relazione che è dialogica proprio perché sospende l’adesione a tutti i saperi depositati nelle diverse teorie psicoterapeutiche. In altre parole, è ovvio che il counselor interagisce con il cliente, e che le sue interazioni possono essere considerate delle procedure in quanto azioni tipiche della relazione di cura (come ad esempio una restituzione empatica), ma queste azioni non hanno il carattere protocollare delle procedure previste dalle linee guida di un metodo empiricamente fondato, non essendo altro che le azioni tipiche corrispondenti ai fattori comuni a ogni relazione di cura che il counselor adotta in risposta alle richieste qui e ora del processo. Con queste risposte tipiche la ricerca fenomenologica costruisce le mappe del campo della cura che il counselor utilizza per orientarsi sul territorio. Le mappe aiutano il counselor a capire in quale punto del campo si trova in un momento dato e a rispondere creativamente alla situazione presente. Una mappa non dice al viaggiatore che cosa deve fare poiché ha un valore descrittivo e non prescrittivo, come hanno invece i protocolli del modello medico-psicologico della cura.

            Quanto all’imputazione di superare spesso e abbondantemente i limiti di tempo e profondità da loro stessi dichiarati, l’unica risposta vincente è che sì, è vero, i limiti sono superati, ma non per questo la cura diventa una psicoterapia, se con questa parola si intende il tipo di trattamento che la legge riserva a medici e psicologi. Nella prospettiva dell’analisi laica, che è quella della nostra scuola, il counselor potrà legittimamente rispondere che l’intervento iniziale si è trasformato in una cura analitica che ora il counselor è in grado di condurre grazie al supplemento formativo completato o in corso che fa di lui un analista esistenziale, appartenente alla famiglia degli analisti laici. In una prospettiva transpersonale, come è quella di Pier Luigi Lattuada², la risposta sarà diversa ma analoga. In entrambi i casi la cura non è condotta secondo i protocolli di una delle molteplici teorie che segmentano il campo delle psicoterapie, il cui valore dipende dalla validazione che ricevono dalla ricerca empirica, perché qui l’oggetto della cura non è la psiche oggettivata dalla ricerca psicologica ma la psyché o anima che, in quanto principio infinito della vita dell’uomo, come era intesa dagli antichi Greci, non può essere indagata con quei mezzi. Questa cura non è una psicoterapia ma una psycheterapia, completamente al di fuori della giurisdizione di medici e psicologi. Una cura guidata, afferma Lattuada, dal Paradigma della Consapevolezza. L’educazione alla consapevolezza può essere condotta secondo paradigmi psicoanalitici o transpersonali, o meglio ancora, dal nostro punto di vista, con una integrazione di entrambi i paradigmi. Quello che è certo è che, come sottolinea ancora Lattuada, Non si evolve da soli. «L’evoluzione sostenibile, il processo di individuazione, la realizzazione del Sé si svolge in un contesto relazionale, culturale, sociale e ambientale che è parte del processo stesso». Ed è il compito di una vita, in cui l’aiuto professionale non può limitarsi a brevi momenti di crisi, al trattamento dei quali deve limitarsi il counselor formato a questo. Anzi, il momento di crisi è un’occasione preziosa per iniziare un cammino serio, impegnativo e non breve, che può anche essere accompagnato e guidato da un counselor, purché – Lattuada e io siamo molto d’accordo ma ancora abbastanza isolati su questo punto cruciale – fornito di un adeguato supplemento formativo che farà di lui, nella nostra prospettiva, un analista esistenziale.


¹Questa sentenza potrebbe essere superata da una nuova sentenza di Cassazione (n. 39339/2017) che afferma: «Vale, quindi, una nozione di attività psicoterapeutica teleologicamente orientata, che prescinde dalle modalità (che possono essere scientificamente collaudate o meno) con cui l’attività si esplica e richiede che essa abbia come presupposto la diagnosi e come obiettivo la cura di disturbi psichici». Questa sentenza potrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) avere l’effetto di spostare l’attenzione dei tribunali dall’indagare i “metodi” (se più o meno simili a quelli adottati dagli psicologi) all’indagare i presupposti ed i fini (se riassumibili o meno nella combinazione diagnosi/cura). V. Rolando. Ciofi, La psicologia e le professioni della relazione di aiuto: uno sguardo sull’ultimo trentennio italiano. Movimento umanistico e relazione d’aiuto: verso una sensibilità collettiva. Cecilia Edelstein (a cura di). M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017.

²Pier Luigi Lattuada, Educare verso un rinascimento umanistico. Movimento umanistico e relazione d’aiuto: verso una sensibilità collettiva. Cecilia Edelstein (a cura di). M@gm@ vol.15 n.2 Maggio-Agosto 2017.

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